aprile 2020

Ogni giorno è un regalo. Bisognerebbe viverlo, se possibile, con gratitudine. Bisognerebbe pensarlo come una brillante ghirlanda di piccole dedizioni, giungendo alla sera stanchi, ma avendo donato almeno un sorriso. E da Lui ho ricevuto uno dei doni più grandi, il mio corpo, la possibilità di farlo rivivere continuato nello spazio e nel tempo, erodendo con l’amore gli stupidi confini entro cui ci relega questo grumo di carne terrena. Un corpo che, nella salute e nella malattia, nella fortuna e nei periodi bui mi accompagnerà fino alla sua naturale conclusione. Un insieme di ossa e muscoli che, nell’ultimo anno, ho condotto a conoscere un esercizio per lui quasi nuovo: correre.

Certo, ho sempre corso. Come tutti i bambini, attraverso strade, cortili, prati. Tuttavia crescendo, ho cominciato a dimenticare. Ho dimenticato come si fa ad attraversare lo spazio con il più semplice gesto fisico dettato dall’istinto. Il passare degli anni e una naturale indolenza avevano soggiogato la natura, costretta e sepolta sotto una spessa e soffice coltre di comode scuse. Poi il destino, beffardo giullare, mi ha giocato l’ennesimo scherzo: ho incontrato un gruppo di persone che corrono. Ho cominciato come è il mio carattere, in maniera selvaggia, senza alcun metodo. E con un’incoerenza mentale dettata dai naturali indolenzimenti, non solo fisici. Talvolta addirittura quasi arrivavo a sperare d’infortunarmi, per avere una scusa per dire “basta, non fa per me”. Ma ogni volta terminavo i miei chilometri senza conseguenze e quasi con stupore. Come sempre accade quando ci si inoltra in un territorio inesplorato, cercavo delle scuse per tornare indietro. Poi pensavo a quel ragazzo a cui piaceva nuotare, al quale hanno sparato, rimasto sulla sedia a rotelle, a tanti meno giovani che si trovano in condizioni fisiche gravose che senza un lamento, anzi con il sorriso, fanno quello che amano fare. E mi vergognavo di me stesso.

Tempo fa inciampai in due libri. Dal primo: “tutti sono prescelti se, invece di domandarsi: “che cosa sto facendo qui?”, decidono di fare qualcosa che risvegli nel cuore l’entusiasmo (…) E’ la voglia di credere che la vita sia un miracolo a far sì che i miracoli avvengano, (…) è la decisione dell’uomo di compiere il proprio destino che gli consente di essere veramente un uomo”.

Credere che la vita sia un miracolo. Nonostante i problemi fisici, e quegli altri. Quella stessa vita che ti consuma mentre tu la consumi, in alcuni giorni è un logoramento ottuso e buio. Ma la scelta era tra ascoltare gli acciacchi, i giorni malandati, i problemi urlanti nel cervello, di fare come (questa frase è del secondo libro) “gli sventurati ciechi che entrano nella morte senza aver neppure sospettato la meraviglia del mondo, digiuni del miracolo della passione suscitata dal sapere che siamo vivi”, e vivere il resto dei miei giorni con un minuscolo, ma persistente rimpianto, oppure…

Oppure fare silenzio di tutto, mettersi le scarpette e correre.

E allora ho capito che non devo più sperare, temere o chiedere nulla, ma solo infilarmi le scarpe e godere di quello che la vita mi sta offrendo, continuando a stupirmi ancora una volta per il solo fatto di farlo. Non ieri, non tra un mese o un anno, ma adesso. Ed esserne riconoscente. Quando e se le mie condizioni fisiche cambieranno, allora ci penserò. Adesso sarebbe inutile farlo.

Uno degli elementi che compone l’essenza del correre è la libertà. Dopo amare, il gesto di correre è l’atto fisico volontario più puro che esista. Quando corriamo c’è un accordo meraviglioso tra il nostro corpo e il mondo, e nel gesto fisico la volontà liberata da ogni costrizione esterna raggiunge in noi forma ed espressione. Ogni volta che corriamo, è come se lavorassimo ad un’opera d’arte.

Dopo la prima dieci km. ho cominciato a pensare alla mezza maratona. Avevo iniziato a seguire una tabella preparatami da un amico. Poi è arrivato questo maledetto virus e tutto si è congelato come in un regno di favola succube di un perfido incantesimo. In ogni caso era un discorso prematuro. Ma la mezza rimane sempre lì nella mia testa, una presenza ricorrente. L’associo all’estate, ad una bella giornata con luminosi pensieri e tanta gente. Chissà perché penso alla mezza della Collemar-athon, forse perché è vicina a casa – ma potrebbe essere Ravenna, Rimini o qualche altra che non so se e quando si terrà.

Nel grigio fiume dei giorni ci sono due attività, fra altre, per cui vale la pena vivere: correre e amare. Posso ritenermi fortunato nel dire che finora ho potuto praticarle entrambe. Non me ne vergogno: vergognarsi di correre vestito da babbo Natale o in mezzo a mille persone, vergognarsi di voler bene è come ucciderci un pochino a vicenda.

In questi giorni leggiamo tanti bei messaggi di solidarietà e calore umano. E’ facile apprezzarli e farli propri dietro ad uno schermo, nella tranquillità della propria casa. Ma il mondo reale è là fuori. E quando usciremo, niente sarà più come prima. Sarà diverso non solo il modo con cui le persone si guardano, ma come si pensano vicendevolmente. Spero solo che in ognuno di noi rimanga un barlume di coscienza di come si può restare umani e “certi d’un amore che resiste allo scempio”. Altrimenti ci ritroveremo a vivere in una realtà raggelante, con molte carenze da sanare e dolorose ferite da rimarginare.

Tuttavia resto fiducioso nell’ancorarmi ad una speranza di salvezza. E della speranza che ci si può salvare non ne possiamo fare a meno. Perché, come dice Jankélévitch (ma l’ho storpiato): si può vivere senza musica, senza gioia, senza amore e senza correre. Ma mica tanto bene.